sabato 8 settembre 2012

4 Settembre 2012 | Basilica di Santa Maria delle Grazie





Mio padre, Emanuele Vinassa, nacque a Pavia il 3 novembre del 1936. Quel giorno Mussolini visitava la città. Paolo, il nonno di papà, magnifico rettore dell’università, entusiasta di quel vergognoso regime, faceva parte del comitato d’accoglienza e raccontò allegro al dittatore che quel giorno gli era nato un nipote. La risposta che ricevette fu “Spero che lo chiamerà Benito”, e a fine giornata arrivò gongolante a casa dei miei nonni per annunciare la bella idea. Nelle parole di papà “tuo nonno gli ha detto che se lo poteva scordare; e quando ha insistito lo ha mandato a cagare”. Che Benito abbia finito per essere il terzo nome di papà mostra quanto potere coercitivo mio bisnonno avesse per ragioni economiche su suo figlio, giacché mio nonno e i lavori che ha fatto andavano d’accordo fino a un certo punto. Il fatto che, malgrado questo aspetto lo abbia costretto ad iniziare a lavorare già studente per far quadrare i conti in casa, facendo se non da padre, da fratello molto maggiore ai 5 bambini arrivati dopo di lui - tristemente non tutti qui presenti oggi – abbia voluto chiamarmi come suo padre, e l’aneddoto sul nome è uno della scarsissima manciata che mi abbia mai raccontato sul nonno; insieme al dato che uno dei primi libri che mi ha fatto leggere quando l’infanzia stava per lasciare posto all’adolescenza sia stato Il sentiero dei nidi di ragno mi porta a dire che evidentemente per papà il valore di una persona andava oltre la sua capacità di guadagnare soldi.
Di libri, e che libri, la casa era letteralmente tappezzata; alla cultura e alle persone che la sanno apprezzare ha dedicato la sua vita. Gli antichi greci dicevano “muore giovane chi è caro agli dei”, e vedendolo sempre meno capace di esprimersi a parole quanto più passava il tempo in questi ultimi anni ho capito cosa intendessero. Mentre la fragilità sempre più evidente ispirava tonnellate di tenerezza lui manteneva un’attitudine stoica, liquidando la questione con un “è normale, sono vecchio”, e nascondeva il più possibile la tristezza e lo sconforto per proteggermi e non farmi preoccupare.
Spero di non ricordarlo così, ma come il gigante buono che sembrava ai miei occhi di bambino, tranne quando si infuriava diventando terrificante. Tale fu la sua rabbia, davanti a una pagella delle elementari, che gli vidi letteralmente tremare le mani. Ma quella volta non mi prese a schiaffi e mentre mi spiegava perché ero venuto meno al mio dovere si sfogò invece su quel che c’era a portata di mano sul tavolo, insegnandomi così – senza parole - che le persone sono più importanti degli oggetti. La mattina a colazione in quegli anni per infondere allegria nelle mie giornate cantava a gran voce in cucina, e per farmi sentire speciale mi spiegava che sarei stato il perfetto anello mancante che serviva ai paleontologi per avere tutti i fossili testimonianti l’evoluzione dell’uomo dalla scimmia. Erano gli anni ’80 e mentre una mattina mi accompagnava a scuola vidi per terra un cucchiaino. Gli chiesi cosa ci facesse lì in mezzo alla strada. Fui così introdotto al concetto di droga, compreso il dettaglio del limone. Ricordo di aver pensato che se una cosa che faceva stare così bene comportava il rischio di dimenticarsi il cucchiaino che serviva per prenderla, quando ci si accorgeva di averlo perso doveva essere proprio brutto. Un paio di anni dopo, con identica naturalezza, davanti a un quadro di cui non avevo capito il titolo, dentro un museo mi avrebbe spiegato cos’è un’orgia. Che non avesse alcuna remora a spiegare al figlio di 8-9 anni come farsi una pera credo dimostri quanto mio padre aborrisse l’ipocrisia e quanto credesse il sapere strumento di libertà.
Quando sulla strada di casa dopo una commissione in centro fece una deviazione per mostrarmi la lapide in memoria di Pinelli e raccontarmene la storia, forse di anni ne avevo pure meno. Raccontava il suo agire politico ai tempi dell’università come cattolico progressista e in effetti votava partito comunista. Ma comincio a sospettare che malgrado la sobrietà di costumi e parole che ha caratterizzato tutta la sua vita, fosse nella sostanza parecchio più ribelle o carbonaro quando, per usare le sue parole, “lavoravo con degli amici a delle riviste”, ma purtroppo non so nient’altro della faccenda. So però che mentre mio nonno Alfonso mi disse “quando firmi devi scrivere vinassa de regny non vinassa e basta, perché tu sei un vinassa de regny” sulla questione mio padre si limitò a dire “se ti chiedono se sei nobile, tu rispondi che la costituzione italiana non riconosce i titoli nobiliari”.
In chiusura, a scanso di equivoci, vorrei precisare che il mio babbo non si faceva di eroina, se la facevano un sacco dei suoi musicisti preferiti. Una volta tanto il fatto che nei funerali non sia prevista musica gioca a favore perché ho paura che qui dentro il Jazz non l’avrebbero mai lasciato suonare.

1 commento:

  1. Ciao,
    sono Giovanni, l’amico di tuo papà, con cui ho trascorso tante domeniche a casa di Corrado e Marcella, dove ho conosciuto anche te, qualche anno fa. Poi non ti ho più visto direttamente, prima dell’ultima volta purtroppo, il 4 Settembre al funerale, ma papà mi parlava spesso di te.
    Ho pensato di mandarti questo breve saluto dopo aver usato a scuola, nelle ultime lezioni del I quadrimestre, la biografia di Galileo scritta da tuo padre. Egli aveva, tra molte qualità, il dono della chiarezza. Lo stesso dono che hai mostrato tu in questo doloroso ma bellissimo ricordo che mi ha impressionato e commosso per la sua coraggiosa franchezza e irritualità. Non dimenticherò mai il momento in cui ti ho ascoltato, ma soprattutto non dimenticherò mai tuo padre, la cui amicizia è stata per me un vero onore e una grande fortuna.
    Ciao, un caro abbraccio,
    Giovanni

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