sabato 13 gennaio 2024

Lode al Ladro! (20 anni dopo)


Quindi ricapitolando, il disco che durante le feste abbiamo celebrato sui 107.6fm (nel modo riascoltabile qui) uscì il 9 giugno 2003, registrato tra il settembre 2002 ed il febbraio 2003, mentre buona parte delle parole che ho scelto di abbinargli erano prese da questo discorso tenuto in Svezia il 22 marzo 2023 da una celebre e premiata scrittrice a cui auguro ogni bene, mentre è purtroppo alle prese con il peggio che Modi&co sono in grado di inventarsi. L'intervento si intitolava Libertà di espressione e Democrazia in fallimento.
 

A questo punto, visto che rispetto ai tempi del dominio incontrastato della carta, con la diffusione degli uno e degli zero il fare copie è diventato quasi fin troppo facile, e che il Trasporto Significati una volta fatto (mai quanto l'originale, ma molto più dello yogurt) per un poco resta valido, tanto vale ch'io faccia qui un po' di copia&incolla. Dice quindi Mme Roy al suo pubblico:

 

Questi due eventi cataclismatici, la pandemia del coronavirus e l’invasione russa dell’Ucraina, hanno solo intensificato il problema di cui siamo qui riuniti per riflettere – il fenomeno delle democrazie che si tramutano in qualcosa di irriconoscibile ma con risonanze la cui riconoscibilità innervosisce. E l’intensificarsi della regolamentazione del discorso in modi che sono molto vecchi, così come modi molto nuovi, fino al punto che l’aria stessa si è mutata in una sorta di macchina punitiva che va a caccia di eresie. Sembriamo avvicinarci velocemente a quel che sembra uno stallo intellettuale.

Invertirò la sequenza suggerita dal titolo di questo intervento e inzierò parlando del fenomeno della democrazia in fallimento.

L’ultima volta che sono venuta in Svezia è stato nel 2017, per la fiera del libro di Gotheborg. Molti attivisti mi chiesero di boicottare la fiera perché, in nome della libertà d’espressione, aveva permesso al giornale di estrema destra Nye Tider di avere un proprio banchetto. All’epoca spiegai che per me sarebbe stato assurdo farlo perché Narendra Modi, il primo ministro del mio paese, che era (ed è) accolto calorosamente sul palcoscenico mondiale, è da tutta la vita membro dell’ RSS, un’organizzazione Suprematista Indù fondata nel 1925, e costituita a immagine delle camicie nere, l’ala paramilitare “volontaria” del Partito Nazionale Fascista di Mussolini.

A Gotheborg vidi marciare il Movimento della Resistenza Nordica. La prima marcia nazista in Europa dalla seconda guerra mondiale. Vi si contrapposero nelle strade dei giovani antifascisti.

Ma oggi un partito di estrema destra, anche se non apertamente nazista, fa parte della coalizione di maggioranza nel governo svedese. E Narendra Modi è al suo nono anno in carica come primo ministro in India.
[...]
Il processo di smantellamento della democrazia è iniziato molto prima che Modi e l’RSS andassero al potere. Quindici anni fa scrissi un saggio intitolato La luce della democrazia che viene a mancare. All’epoca, era al potere il Congress Party, un partito di vecchie elite feudali e tecnocrati sposati da poco e con entusiasmo al libero mercato. Leggerò un breve passo da quel saggio – non per far vedere quanto avessi ragione – ma per tracciare per voi una mappa di quanto sono cambiate le cose da allora.

Già che siamo ancora qui a discutere se ci sia una vita dopo la morte, possiamo aggiungere un’altra domanda al carrello? Esiste una vita dopo la democrazia? E che genere di vita sarà?
Quindi in realtà, qui, la questione è cosa abbiamo fatto alla democrazia? In cosa l’abbiamo trasformata? Cosa succede una volta che la democrazia è stata usata fino in fondo? Quando è stata resa cava e svuotata di significato? Cosa succede quando ognuna delle sue istituzioni è diventata una pericolosa metastasi? Cosa succede adesso che la democrazia e il Libero Mercato si sono fusi in un unico organismo predatorio con una sottile, prigioniera immaginazione che ruota quasi interamente attorno all’idea di massimizzare i profitti? É possibile invertire questo processo? Qualcosa che è mutato può tornare ad essere quello che era una volta?


Questo era il 2009. Cinque anni dopo, nel 2014, Modi fu eletto primo ministro dell’India. Nei nove anni trascorsi da allora l’India è cambiata fino ad essere irriconoscibile. La “repubblica laica e socialista” ordinata dalla Costituzione indiana ha quasi cessato di esistere. Le grandi lotte per la giustizia sociale e gli ostinati, visionari movimenti ambientalisti, sono stati schiacciati. Adesso parliamo raramente dei fiumi morenti, dei livelli in discesa delle falde acquifere, delle foreste che scompaiono o dei ghiacciai in scioglimento. Perché quelle preoccupazioni sono state sostituite da un timore più immediato. O da un’euforia, a seconda del lato del confine ideologico in cui vi trovate.

Da ogni punto di vista pratico l’India è diventata uno stato corporativo e teocratico indù, uno stato con forte controllo poliziesco, uno stato che incute paura. Le istituzioni che sono state svuotate dal regime precedente, soprattutto i media generalisti, ora ribollono di fervore suprematista indù. Simultaneamente, il libero mercato ha fatto quello che fa il libero mercato. In breve, stando al rapporto Oxfam del 2023, l’1% più ricco della popolazione indiana possiede più del quaranta per cento della ricchezza totale, mentre il 50% più povero della popolazione (700 milioni di persone) possiede circa il 3 per cento della ricchezza totale. Siamo un paese molto ricco composto di persone molto povere.

Ma invece di essere diretti verso quelli che potrebbero essere responsabili per alcune di queste cose, la rabbia e il risentimento che questa disuguaglianza genera sono stati coltivati e diretti contro le minoranze dell’India. I 170 milioni di musulmani che compongono il 14 per cento della popolazione sono in prima linea. Tuttavia il pensiero maggioritario attraversa le barriere di classe e di casta ed ha un grande seguito anche nella diaspora.

A gennaio di quest’anno la BBC ha trasmesso un documentario in due parti intitolato India: la questione Modi. Tracciava il percorso politico di Modi dal suo debutto nel 2001 come ministro capo nello stato del Gujarat fino ai suoi anni come primo ministro indiano. Il film rese pubblico per la prima volta un rapporto commissionato dal Foreign Office nell’aprile 2002 sul pogrom anti-musulmano che si svolse nel Gujarat nel febbraio e marzo 2002 mentre Modi era in carica, subito prima delle elezioni per il parlamento statale.

Il rapporto di determinazione dei fatti, tenuto sotto chiave per tutti questi anni, non fa che corroborare quello che attivisti, giornalisti, avvocati, due anziani ufficiali di polizia e indiani testimoni oculari degli stupri di massa e massacri vanno dicendo da anni. Esso stima che “almeno 2.000” persone siano state assassinate. Definisce il massacro un pogrom pianificato in anticipo che portava “tutti i segni distintivi della pulizia etnica.” Afferma che fonti affidabili li hanno informati del fatto che quando le uccisioni iniziarono alla polizia fu ordinato di non intervenire. Il rapporto indirizza l’accusa di responsabilità per il pogrom direttamente contro Modi.

Il film è stato proibito in India. A Twitter e YouTube è stato ordinato di eliminare tutti i link che portavano ad esso. Hanno obbedito immediatamente. Il 21 di febbraio gli uffici a Delhi e Mumbai della BBC sono stati circondati dalla polizia e perquisiti dagli ufficiali dell’agenzia delle imposte. Come è accaduto agli uffici di Oxfam. Come è successo agli uffici di Amnesty International. Come è successo agli uffici e alle case dei principali politici di opposizione. Come è successo a quasi ogni ONG che non è completamente allineata al governo. Mentre sul piano legale Modi è stato assolto dalla Corte Suprema per il pogrom del 2002, gli attivisti e gli ufficiali di polizia che hanno osato accusarlo di complicità, basandosi su una montagna di prove e testimonianze dirette, o sono in prigione o sono sotto processo penale.

Nel frattempo molti degli assassini condannati sono fuori su cauzione o sulla parola. Lo scorso agosto, nel 75° anniversario dell’indipendenza dell’India, undici condannati sono usciti di prigione. Stavano scontando degli ergastoli per uno stupro di gruppo di una diciannovenne musulmana, Bilkis Bano, nel corso del pogrom del 2002 e per aver ucciso quattordici membri della sua famiglia, inclusi la sua nipotina di un giorno e la figlia di tre anni, Saleha, cui frantumarono il cranio contro una roccia. È stata concessa loro una amnistia speciale. Fuori dalle mura della prigione, gli assassini-stupratori sono stati accolti come eroi, con ghirlande di fiori. Ancora una volta, dietro l’angolo c’era un’elezione statale. L’amnistia speciale era parte del nostro processo democratico.
 
a questo punto nello speciale parte A Wolf at the Door, con cui si arrivava al previsto blocco pubblicitario. Il rientro in onda era con A Punch-Up at the Wedding e dopo una piccola nota di orientamento per chi avesse perso la mezz'ora precedente si ricominciava con le parole di dura realtà.
 
Nel Kashmir, l’unica regione indiana a maggioranza musulmana, dove le persone hanno lottato per l’autodeterminazione per quasi tre decenni, dove l’India dirige la più densa amministrazione militare del mondo, e dove a nessun giornalista straniero è permesso andare, il governo ha permesso liberamente a sé stesso di bloccare qualunque discorso – su internet o altrove – e di incarcerare giornalisti locali.

Nella bellissima valle coperta di cimiteri, la valle da cui nessuna notizia arriva, le persone dicono “In Kashmir i morti sono vivi, e i vivi sono solo morti che fanno finta.” Fanno spesso riferimento alla democrazia indiana quale “matta come un demonio.”

Nel 2019, settimane dopo che Modi e il suo partito BJP conquistarono un secondo mandato, gli stati di Jammu e Kashmir sono stati unilateralmente privati della loro statalità e dello status di semi-autonomia che la Costituzione indiana riconosce loro. Poco dopo ciò, il parlamento emanò la legge sull’emendamento della cittadinanza (CAA). Questa nuova legge discrimina i musulmani in maniera manifesta. Con la legge in vigore, le persone, soprattutto musulmane, temono ora di perdere la cittadinanza.

La CAA sarà complementare al processo di creazione del Registro Nazionale di Cittadinanza (NRC). Per essere incluse nel Registro Nazionale di Cittadinanza ci si aspetta che le persone presentino una serie di “documenti di eredità” approvati dallo stato – un processo non dissimile da quello che le leggi di Norimberga della Germania nazista richiedevano al popolo tedesco. Nello stato di Assam già due milioni di persone sono state cancellate dal Registro Nazionale di Cittadinanza e rischiano di perdere tutti i loro diritti. Immensi centri di detenzione sono in corso di costruzione, con il lavoro duro spesso svolto dai futuri reclusi – coloro i quali sono stati definiti “stranieri dichiarati” o “votanti dubbiosi”.

La nostra nuova India è un’India di costume e spettacolo. Immaginate uno stadio di cricket ad Ahmedabad, nel Gujarat. Si chiama Stadio Narendra Modi ed ha una capienza di 132.000 posti a sedere. Nel gennaio 2020 era pieno fino al limite per il raduno Namastey Trump in cui Modi si congratulò con l’allora presidente statunitense Donald Trump. Salutando la folla in piedi, nella città in cui durante i pogrom del 2002 dei musulmani erano stati massacrati alla luce del giorno e decine di migliaia erano stati cacciati dalle proprie case, e dove i musulmani ancora vivono in ghetti, Trump si complimentò con l’India per il suo essere varia e tollerante. Modi esortò agli applausi.

Il giorno dopo Trump arrivò a Delhi. Il suo arrivo nella capitale coincise con ancora un altro massacro. Questa volta uno piccolo, un mini-massacro rispetto agli standard del Gujarat. In un quartiere proletario a solo qualche chilometro dal raffinato hotel di Trump, e non distante da dove abito io. Ancora una volta vigilanti indù attaccarono i musulmani. Ancora una volta la polizia non intervenne. A provocare questo fu il fatto che nell’area si fossero svolte proteste contro la legge anti-musulmana sull’emendamento della cittadinanza. Cinquantatré persone, la maggior parte musulmane, furono uccise. Centinaia di botteghe, case e moschee furono date alle fiamme. Trump non disse nulla.

Un diverso tipo di spettacolo è impresso a fuoco in alcune delle nostre menti da quei giorni terribili: un giovane musulmano giace, gravemente ferito, prossimo alla morte, in una strada della capitale dell’India. Viene pungolato e picchiato e costretto da dei poliziotti a cantare l’inno nazionale indiano. Morì qualche giorno dopo. Il suo nome era Faizan. Aveva 23 anni. Contro quei poliziotti non è stato preso alcun provvedimento.

Nulla di tutto questo dovrebbe avere grande importanza per i rettori del mondo democratico. Nei fatti non ne ha. Perché dopo tutto ci sono affari di cui occuparsi. Perché al momento l’India è per l’occidente (o così spera) il bastione contro una Cina in ascesa, e perché nel libero mercato puoi scambiare un po’ di stupri di massa e linciaggi, o l’occasionale pulizia etnica, o della seria corruzione finanziaria, in cambio di un generoso ordine d’acquisto di jet da caccia o di aeroplani di linea. O petrolio greggio acquistato dalla Russia, raffinato, liberato dallo stigma delle sanzioni USA e venduto all’Europa e, sì, o così riportano i nostri giornali, anche agli Stati Uniti. Sono tutti felici. E perché no?

Per gli ucraini, l’Ucrania è il loro paese. Per la Russia, è una colonia e per l’Europa occidentale e gli Stati Uniti è una frontiera. (Come lo era il Vietnam. Come lo era l’Afghanistan.) Ma per Modi, è soltanto un altro palcoscenico su cui esibirsi. Questa volta per interpretare il ruolo dello statista-pacificatore e offrire omelie quali “Questa non è l’ora della guerra.”

Dentro quel che sembra sempre più una setta, c’è una giurisdizione sofisticata. Ma non vi è alcuna eguaglianza di fronte alla legge. Le leggi sono applicate in maniera selettiva sulla base di casta, religione, genere e classe. Per esempio, un musulmano non può dire quello che può dire un indù. Una persona del Kashmir non può dire quello che tutti gli altri possono dire. Questo rende la solidarietà, il prendere la parola gli uni in nome degli altri, più importante che mai. Ma anche quello è diventato un’attività pericolosa, e questo è quanto intendo con il titolo del mio intervento – Avvicinarsi allo stallo.
[...]
Ma la censura oggi è diventata una battaglia di tutti contro tutti. La nobile arte dell’offendersi è divenuta un’industria globale. La questione è come negozia una persona con questa macchina con teste da idra, dagli arti multipli, con l’occhio d’aquila, per sempre sveglia, vigilante perenne, in caccia di eresie? È persino possibile, o si tratta di una marea che deve passare prima che si possa anche solo discuterne?

In India, come in altri paesi, il trasformare in arma l’identità come forma di resistenza è diventata la risposta dominante alla trasformazione in arma dell’identità come forma di oppressione. Coloro che storicamente sono stati oppressi, schiavizzati, colonizzati, stereotipati, cancellati, inascoltati e non visti proprio a causa delle nostre identità – la nostra razza, casta, etnia, genere o preferenza sessuale – adesso stanno spavaldamente sottolineando quelle stesse identità come reazione a quella oppressione.

È un momento potente ed esplosivo nella storia, in cui, tramite il mezzo dei social media, una rabbia selvaggia e incandescente sta abbattendo le vecchie idee, i vecchi schemi di comportamento, presupposti sussidiati che non erano mai stati messi in discussione, parole appesantite, e un linguaggio codificato con pregiudizio e bigottismo. L’intensità e il carattere improvviso di ciò hanno sorpreso un mondo compiacente portandolo a ripensare, reimmaginare e cercare di trovare una maniera migliore di fare e dire le cose. Ironicamente, quasi inusitatamente, questo fenomeno, questa regolatura di precisione, sembra muoversi in sintonia con il nostro barcollare nel fascismo.
 
A questo punto parte Sit Down, Stand Up cui, prima di tornare al piatto principale, seguiva questo piccolo aneddoto
 
Essere senza Dio in America è inusuale. In Inghilterra e in Europa è talmente comune, che dichiarare che non si crede in Dio vuol dire far sì che le persone si grattino la testa e si chiedano perché stai dicendo una simile banalità. Esprimere il proprio ateismo sembra come affermare l’ovvio. Quello che sembra strano è esprimere una credenza religiosa. (A meno che siate musulmani. I musulmani hanno problemi con l’ateismo.) In Inghilterra, quando Tony Blair era primo ministro, i suoi spin doctor fecero grandi sforzi per nascondere il fatto che fosse profondamente religioso, perché se la cosa fosse stata risaputa da molti, sarebbe stata svantaggiosa dal punto di vista elettorale. La pratica pubblica, la fede religiosa profonda, era ricetta di sconfitta politica.
L’anno scorso fui invitato a una conferenza di “ateismo globale” in Australia, con molti oratori di punta assai conosciuti in cartellone: Richard Dawkins, Daniel Dennett, etc. Seppi in seguito che la conferenza dovette essere cancellata perché non erano riusciti a vendere biglietti. Sorprendentemente, non avevano venduto quasi neanche un biglietto. Sembra che gli australiani non avessero voglia di pagare per sentire un gruppo di noi che teneva conferenze su quello che loro davano per scontato. Preferivano andare in spiaggia e, come il giudice Brett Kavanaugh, bersi qualche birra e declinare la responsabilità per quello che succedeva dopo. In America, tristemente, non siamo ancora tanto avanzati quanto gli australiani, tranne che per il dipartimento birra e quel che viene dopo.
In America, se dal podio di una conferenza rigetti la religione, senti spesso rumori di stupore: sussulti, veloci inspirazioni di fiato. In America, non puoi farti eleggere nemmeno come accalappiacani se non riesci a dimostrare che vai in chiesa tutte le domeniche e che hai un rapporto di confidenza con il prete che ci lavora. (Tanto per essere chiari, non troppa confidenza. Lui comunque probabilmente preferisce persone più giovani.)
Persino Donald Trump ha dovuto fare finta di essere religioso, che per lui non è stato facile, perché, come del materiale video dalla National Cathedral ha dimostrato, sembra che non conosca le parole per la Preghiera del Signore. (Tra parentesi: Sapere cose non è, in generale, il punto di forza di Trump. Come osservato da un commentatore conservatore, non è solo il fatto che Trump non sa le cose, è che non sa cosa vuol dire “sapere delle cose.”)
Alcuni anni fa, prima dell’ultima guerra in Iraq, mi ritrovai nel Distretto di Columbia a parlare con gruppi di senatori democratici e repubblicani. Una delle differenze che colpivano tra i due gruppi era che i democratici parlavano usando il linguaggio secolare della politica, mentre i repubblicani erano pieni di riferimenti agli incontri di preghiera e alla fede. Durante l’incontro con i repubblicani, un senatore del Good Old Party annunciò, con grande indignazione, che aveva visto citata una frase di Obama bin Laden affermante che l’America fosse una nazione senza Dio. “Come può dire questo?” mi chiese il senatore, sinceramente offeso. “Siamo incredibilmente pii!” Fui sorpreso dalla sua veemenza. Sentiva che qualcosa di essenziale della sua identità era sotto attacco. Pensai che probabilmente Osama bin Laden aveva in mente obbiettivi più grandi dell’immagine di sé del senatore, ma tenni per me quel pensiero.
Comunque, me ne venni via chiedendomi perché, nella Terra dei Liberi, le persone fossero ovunque prigioniere dell’antica ideologia chiamata Dio. Ecco la spiegazione, la teoria da due soldi che sono riuscito a mettere insieme. Ha molto a che fare con la maniera in cui le persone pensano alla libertà. In Europa, la battaglia per la libertà di pensiero ed espressione è stata combattuta più contro la Chiesa che contro lo stato. La Chiesa, con il suo apparato di oppressione – scomunica, anatema, l’Index Expurgatorius, tortura, affogamento delle streghe, smembramento o rogo dei dissidenti – operava nel campo del porre punti che limitavano quello che poteva essere pensato e detto, e se superavi quelle frontiere potevi, come Giordano Bruno, come Savonarola, trovarti bruciato sul rogo o, come minimo, essere costretto, come Galileo, a ritrattare ciò che sapevi essere vero. Quindi nel pensiero europeo, la “libertà” arrivò ad essere concepita come “libertà dalla religione.” Gli scrittori e i filosofi dell’Illuminismo francese lo comprendevano bene, e si presero l’impegno di erodere il potere della Chiesa nel silenziare l’espressione, usando la blasfemia quale una delle loro armi, ed è stato il loro lavoro che è finito per essere l’arco di volta delle nostre moderne idee sulla libertà.
Tuttavia, i primi coloni che arrivarono in America dall’Europa in molti casi stavano scappando dalla persecuzione religiosa, e l’America, la loro nuova terra, era per loro il luogo dove sarebbero stati liberi di praticare la propria fede come volevano, senza paura. Per cui la “libertà” in America fu dai primissimi tempi concepita non come libertà dalla religione ma come libertà per la religione. Religione e libertà non erano su fronti opposti ma dalla stessa parte. E quando fu composto il Primo Emendamento, queste due cose furono aggiogate insieme per sempre. “Il Congresso non dovrà adottare nessuna legge riguardo la definizione di una religione, o la proibizione della libera pratica di essa; o limitando la libertà di parola, o della stampa; o il diritto delle persone a riunirsi pacificamente e a chiedere al Governo un rimedio dei loro torti.” Vedete che la libertà di religione precede la libertà di parola. Essa è di prima importanza, e la libera espressione è solo di seconda importanza. Ciò ha qualcosa a che fare con il perché l’ateismo in America ha radici così poco profonde. La religione e la libertà nel continente nordamericano si sposarono, il Primo Emendamento fu il certificato di matrimonio, e il risultato furono gli Stati Uniti.
 
Aneddoto pescato dentro questo libro, una cui prima tiratura aveva un prezzo davvero inavvicinabile, e che sono molto contento di aver poi trovato disponibile per una quantità di euro più ridotta.
 

Si tornava quindi, nello speciale, al testo del discorso all'accademia svedese
 
Persino queste micro identità sviluppano poi una gerarchia di potere e una micro elite, di solito situate nelle grandi città, grandi università, con capitale da social media, che inevitabilmente imitano lo stesso tipo di esclusione, cancellazione e gerarchia che vengono messe in discussione in primo luogo.

Se chiudiamo noi stessi nelle celle di prigione delle stesse etichette e identità che ci sono state assegnate da chi ha sempre avuto potere su di noi, possiamo al massimo inscenare una rivolta carceraria. Non una rivoluzione. E presto appariranno i secondini per ripristinare l’ordine. Nella realtà, sono già in cammino. Quando accettiamo una cultura di proscrizione e censura, alla fine è sempre la Destra, e di solito lo status quo, a trarne benefici sproporzionati.
 
dopo un breve respiro, grazie ad I Will, si prosegue
 
Funziona come una intricata macchina di amministrazione e sorveglianza che opera sé stessa, in cui la società si amministra e sorveglia, e nel mentre garantisce che le soprastanti strutture di oppressione restino al loro posto. Fatta eccezione per quelli al vertice e quelli al livello più basso – e anche queste categorie sono misurate con precisione – ognuno è oppresso da qualcuno e ha qualcuno da cui essere oppresso.

Una volta che questo labirinto di inneschi è stato messo in piedi, quasi nessuno può superare il test di purezza e correttezza. Di sicuro, quasi niente di ciò che una volta era considerato buona o alta letteratura. Di sicuro non Shakespeare. Né Tolstoj. Lasciate da parte il suo imperialismo russo, immaginate di pensare che potesse comprendere la mente di una donna chiamata Anna Karenina. Né Dostoievsky, che per indicare le donne anziane usa solo la parola “megera”. Per i suoi standard io di sicuro rientrerei tra le megere. Ma vorrei lo stesso che la gente lo leggesse.
[...]
Nel mezzo dell’apparente rumore nel discorso pubblico, ci stiamo agilmente avvicinando a una sorta di stallo intellettuale. La solidarietà non può mai essere immacolata. Dovrebbe essere messa in discussione, analizzata, calibrata, se ne dovrebbe discutere. Se lo impediamo, rinforziamo la cosa stessa contro cui diciamo di stare lottando.

Cosa fa tutto questo alla letteratura? Da autrice di narrativa ci sono poche cose che mi turbano più della parola “appropriazione”, che è uno dei gridi di chiamata della nuova censura. In questo contesto, l’appropriazione, detta in maniera cruda, ha a che fare con i predatori, anche predatori contriti che cercano di scrivere, o rappresentare, parlare sopra, o proprio raccontare le storie delle loro prede in loro nome. È abbastanza repellente, e un principio utile da tenere a mente quando si critica qualcosa.
 
ecco poi partire la grandissima Where I End and You Begin che porta dritti a 
 
Venendo nello specifico alla narrativa, non ci può essere narrativa senza appropriazione. Perché anche noi scrittori di narrativa siamo predatori. Se i serial killer sono dei sociopatici spietati, i romanzieri sono appropriatori spietati. Per costruire i nostri mondi fittizi, ci appropriamo di tutto quello che incrocia il nostro percorso e mettiamo tutto in gioco. Questo è quello che rende i grandi romanzi degli oggetti pericolosi e rivelatori.

Per quel che mi riguarda, ho cercato di imparare il mestiere non solo da scrittori irreprensibili come Toni Morrison e James Baldwin, ma anche da imperialisti come Kipling, e da bigotti, razzisti, sobillatori e mascalzoni che scrivono stupendamente. Dovrebbero essere adesso riscritti per marciare al ritmo di un angusto manifesto?
[…]
Oggi sappiamo, anche se molti non lo vogliono accettare, che il confine tra il maschile e il femminile è un confine fluido e non quello che le convenzioni avevano ipotizzato che fosse. Ma allora il confine tra l’essere umano e la macchina, tra arte e programmazione, tra intelligenza artificiale e coscienza umana? Questi confini sono tanto stabiliti quanto abbiamo pensato che fossero?
[…]
C’è una discreta quantità d’ansia attorno a quel che potrebbe accadere se Open AI trovasse il suo percorso nel mondo senza norme e barriere di sicurezza. Come è giusto che sia.

Quando si arriva alla letteratura, la mia preoccupazione non è tanto riguardo a se i chatbot rimpiazzeranno gli scrittori. (Può darsi che io sia un po’ troppo vecchia e vanitosa per quello. O forse è soltanto che non vedo la letteratura come un “prodotto.” Il dolore, il piacere e la pura follia del processo sono l’unica ragione per cui scrivo.) La mia preoccupazione è che, dato l’ammontare di dati e informazioni che gli scrittori umani – vedete, l’ho detto, ho detto “scrittori umani” – devono elaborare di questi tempi, e dato il labirinto di inneschi con cui dobbiamo negoziare per essere scevri da errori e politicamente perfetti, il pericolo è che gli scrittori possano perdere i loro istinti e trasformarsi in chatbot. Forse allora ci sarà un trasferimento di anime. I chatbot sembreranno essere le vere anime e le vere anime saranno dei chatbot che fingono.

Nel mezzo di tutta questa fluidità e porosità, gli unici confini che sembrano indurirsi sono i confini tra gli stati nazione. Questi continuano ad essere stabiliti, controllati. Quando sono violati da eserciti, la chiamiamo guerra. Quando sono violati da persone, la chiamiamo crisi di rifugiati. Quando sono violati dal movimento non regolamentato del capitale, lo chiamiamo il libero mercato. Il moderno stato nazione è lassù insieme a Dio come idea per cui vale la pena uccidere o morire. Ma adesso, nell’era digitale, ci stiamo dirigendo forse verso un nuovo tipo di stato? Lo stato elettronico, o quello che viene chiamato lo stato in uno smartphone. Uno stato avatar, se vi va.
 
a questo punto della scaletta c'era Go to Sleep, la cui inclusione nello speciale non era prevista da subito, ma solo da quando era risultato palese, davanti al progetto nell'ottimo e decisamente non economico Vegas Pro che far stare tutto in soli 60' sarebbe stato impossibile, caratteristica che la accomuna al terzo dei brani presenti nella parte post interruzione pubblicitaria
 
Con i fondi dell USAID e il supporto di big tech – Amazon, Apple, Google, Oracle – lo stato avatar è quasi di fronte a noi. Nel 2019 il governo dell’Ucraina ha lanciato DIIA, una app di identificazione digitale per gli smartphone. Oltre ad offrire più di un centinaio di servizi governativi, DIIA può ospitare passaporti, certificati vaccinali e altri documenti di identità. La città DIIA è la sua capitale finanziaria extraterritoriale – una sorta di hub per capitali di rischio in cui i cittadini si possono registrare e fare affari.

Dopo l’inizio dell’invasione russa la DIIA, concepita inizialmente come uno strumento burocratico per assicurare “trasparenza ed efficienza”, fu, nelle parole di Samantha Power, amministratrice di USAID, “riadattata per la guerra.” A detta di tutti la DIIA ha reso un enorme servizio al coraggioso popolo ucraino. Adesso ha un servizio notizie governativo 24 ore su 24 perché i cittadini possano informarsi sulla guerra. I rifugiati possono usarlo per registrarsi, e fare domanda di risarcimento. Apparentemente i cittadini possono usarlo per inviare informazioni sui collaborazionisti e fotografie dei movimenti di truppa russi. Una sorta di intelligence pubblica in tempo reale e una rete di sorveglianza operata da semplici cittadini.

Quando iniziò la guerra, i dati privati dei cittadini ucraini su DIIA sono stati trasferiti per esigenze di salvaguardia su hard-drive di Amazon di livello militare chiamati palle di neve AWS, l’equivalente terrestre del cloud, e trasportati fuori dall’Ucraina e trasferiti su cloud. In una guerra devastante quanto quella che gli ucraini stanno combattendo e sopportando, se una popolazione è completamente allineata a supporto del proprio governo, allora avere il proprio Stato in uno smartphone ha sicuramente dei vantaggi incredibili. Ma quei vantaggi aumentano anche in tempo di pace? Perché, come sappiamo da Edward Snowden, la sorveglianza è una strada a doppio senso di percorrenza. I nostri telefoni sono i nostri nemici intimi, spiano anche noi.

Con il fine di “proteggere il mondo democratico”, USAID ha in programma di portare DIIA o un suo equivalente in altri stati. Paesi come Ecuador, Zambia, Repubblica Dominicana sono in cima alla lista d’attesa. La preoccupazione è che, una volta che una app come DIIA è stata “riadattata per la guerra”, può essere “disadattata” o “deadattata” per la pace? Una cittadinanza trasformata in arma può essere disarmata? I dati privatizzati possono essere de-privatizzati?

Anche l’India è abbastanza avanti lungo questo percorso. Durante il primo mandato di Modi come primo ministro la Reliance Industries, all’epoca la più grande multinazionale indiana, lanciò JIO, una rete dati cellulare gratuita, che era abbinata a uno smartphone dal prezzo davvero misero. Una volta esclusa forzosamente dal mercato la concorrenza, cominciò a far pagare una piccola tariffa. La JIO ha trasformato l’India nel più grande consumatore di dati senza filo del mondo – più di Cina e Stati Uniti messi insieme.

Arrivati al 2019 c’erano 300 milioni di utilizzatori di smartphone. Insieme agli innegabili benefici dell’essere connessi a internet, questi milioni di persone sono diventati un pubblico pronto per messaggi di odio, socialmente radioattivi e infinite fake news che scorrono senza sosta nei loro telefoni attraverso i social media. È qui che vedrete l’India senza abbellimenti.

È qui che quegli inviti al genocidio e allo stupro di massa dei musulmani vengono amplificati. Dove video di guerrieri vendicatori indù che massacrano musulmani, finti video di musulmani che ammazzano indù, e di venditori di frutta musulmani che sputano in segreto sulla frutta per diffondere il Covid (come nella Germania nazista gli ebrei furono accusati di diffondere il tifo) sono fatti circolare per spingere le persone dentro una frenesia di rabbia e odio. I canali social media dei suprematisti indù sono rispetto ai media mainstream quello che una milizia di sorveglianza è rispetto a un esercito convenzionale. Le milizie possono fare cose che per un esercito convenzionale sarebbero illegali.

La rivoluzione digitale in India è l’esempio perfetto di come gli interessi dei grandi gruppi d’affari e quelli del suprematismo indù coincidono perfettamente. Mentre i cittadini indiani sono introdotti a milioni nell’arena digitale, sono vissute online intere vite, istruzione, assistenza medica, affari, operazioni bancarie, la distribuzione di razioni di cibo ai poveri. Le multinazionali di social media devono essere sempre più attente al governo che controlla questa stupefacente quota di mercato. Perché quando quel governo non è contento, come spesso è, può semplicemente spegnere tutto.
 
qui nello speciale parte 2+2=5, canzone sui disastri che capitano quando non si fa attenzione, che nel disco degli oxfordiani è la traccia di apertura, per finire su una sorta di chiusura ad effetto
 
Nel 2019 i sette milioni di abitanti della valle del Kashmir sono stati posto sotto un assedio a tappeto di internet e telecomunicazioni che è durato per mesi. Niente telefonate, niente sms, niente messaggi, niente password valide per una sola sessione, niente internet. Niente. E non c’era in giro nessuno che potesse allungare loro un satellite Starlink.

Oggi, mentre vi parlo, lo stato del Punjab, popolazione di 27 milioni, sta sopportando il suo quarto giorno consecutivo di chiusura di internet perché la polizia sta dando la caccia a un fuggitivo per motivi politici ed è preoccupata che egli possa invocare un sostegno.
[…]
Diciamo per esempio che dopo l’approvazione di una nuova legge sulla cittadinanza il Paese X produca milioni di “rifugiati” a partire dai suoi cittadini stessi. Non li può deportare, non ha i soldi per costruire prigioni per tutti loro. Ma il Paese X non avrà bisogno di un gulag o di campi di concentramento. Può semplicemente disconnetterli. Può spegnere lo Stato dentro i loro smartphone. Potrebbe a quel punto avere una vasta popolazione di servitori, una sottoclasse virtuale di lavoratori senza diritti, senza salari minimi, diritti di voto, assistenza medica o razioni di cibo.

Non ci sarebbe bisogno che compaiano nei registri. Migliorerebbe enormemente gli indicatori statistici del Paese X. Potrebbe essere un’operazione assai efficace e trasparente. Potrebbe persino sembrare una grande democrazia.

Che odore avrebbe uno stato di quel tipo? Che sapore? Qualcosa di irriconoscibile? O qualcosa di molto riconoscibile?
 
e infine con Scatterbrain si arriva al momento dei saluti, dell'indicazione sulla provenienza dei testi e dei doverosi ringraziamenti ai 4 colleghi che hanno dato una mano, uno dei quali si era occupato di leggere le porzioni di testo di alcune delle canzoni in scaletta. La chiusura, invece, è affidata a There There, che a distanza di vent'anni continua ad essere una di quelle canzoni per cui il volume non è mai alto abbastanza, anche e non solo per il verso che recita:
 
Siamo incidenti,
che aspettano di succedere.


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